Sono giorni difficili in Italia da quando, quel 10 marzo 2020, tra zone rosse, arancioni e lockdown le scuole hanno ripreso la loro attività educativa a singhiozzo. Tutti al grido di #stiamoacasa a raccomandare responsabilità, prudenza e senso civico. Un grido giusto che riecheggia e si amplifica nella voce di molti personaggi famosi, i quali invitano – sfruttando giustamente la propria notorietà ed influenza – proprio al sacrificio di ognuno per il bene sanitario di tutti. Un grido necessario che invita ad una convivenza forzata e al ritorno al nucleo familiare stretto come non lo si viveva da tempo. Mariti e mogli, o compagni – va bene qualsiasi tipo di famiglia – indaffarati con lo smart working insieme ai propri figli che si riscoprono in questo momento estranei gli uni agli altri.
LA CONVIVENZA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
L’emergenza sanitaria per il contrasto al Covid-19 ha comportato grandi cambiamenti. Chi può, perché non costretto per esigenze lavorative a recarsi in ufficio o perché è un servizio offerto dalla propria azienda, continua la propria attività lavorativa attraverso la modalità dello smart working. Si lavora da casa sfruttando tutti i possibili mezzi telematici di cui siamo forniti e al contempo si rispetta la legge, si preserva la propria salute e quella dei propri familiari e si cura la casa che proprio oggi torna ad essere un luogo originario di protezione e sicurezza. Insieme ai genitori ci sono i figli, anch’essi in ferie forzate, isolati dal mondo e dagli amici ma non da se stessi. Quando si deve necessariamente e obbligatoriamente chiudere la porta al mondo esterno, quello che succede all’interno diventa tutto più imponente, assordante, chiassoso.
CONVIVENZA E CONTENIMENTO
Come fare a contenere bambini iperattivi o adolescenti in rivolta? È un duro lavoro quello dei genitori in questi giorni, qualunque sia l’età dei propri figli. Nessuno, all’atto del concepimento o a quello della nascita avrebbe mai immaginato cosa sarebbe accaduto in questo funesto 2020. È difficile per quei genitori che sono costretti a stare lontani dai propri figli e per quei genitori che non possono distaccarsene neanche per pochi minuti. È straziante dire loro che neanche questa notte mamma tornerà a casa – perché mamma è un’infermerie, un dottore, un operatore sanitario e sta provando a salvare il mondo e per salvare il mondo significa inghiottire le lacrime che scendono alle sue suppliche – così come è straziante dire di no a tutte le richieste dei propri figli – perché quanto mai oggi la tutela si veicola attraverso il NO ripetuto con tono fermo e deciso, un NO che non si può mercanteggiare e che non è contrattabile, sia per loro che soprattutto per te.
ESSERE GENITORI OGGI
Da sempre il mestiere dei genitori non si impara su i libri. Già Sigmund Freud, padre della psicanalisi lo riteneva tra i più difficili in assoluto insieme a quello di insegnante e di psicologo. Ma nell’ordine, quello del genitore, veniva prima degli altri due. Non si nasce genitori e lo si diventa solo agendo l’essere genitori. Si educa e si svolge la funzione solo mettendola in atto nel mondo, solo attraverso le azioni e sappiamo che più di agisce e più si rischia di incappare nell’errore. Ed oggi l’errore sta nel cedere alla fatica che il ruolo richiede. Una fatica che appare quanto più imponente e insopportabile perché i margini della fine sono alquanto incerti e frastagliati. Si tornerà alla normalità, prima o poi, ma è quel prima o poi che pesa come una indigestione, un rimasuglio nello stomaco che proprio non vuol saperne di disintegrarsi.
ODIO ET AMO
Ma quale è la fatica di oggi? Quella accettare che per i propri figli si prova odio oltre all’amore sconfinato. Questo due sentimenti, odio e amore, non sono in contrasto tra di loro ma uno segue l’altro, uno alimenta l’altro.
Si odia l’infante che non riesce a calmarsi che vorrebbe i propri genitori sempre performanti, allegri e pieni di spunti divertenti su cui soffermarsi insieme. Si odia la loro energia incontenibile che, all’interno di quattro mura, diventa sempre più esplosiva. E noi adulti non abbiamo la loro energia, la nostra è esaurita da tempo, è assorbita dalle richieste che vengono ancora dall’esterno, dalle scadenze che non vengono rinviate, è impegnata dal bombardamento mediatico che irrompe col telegiornale, dai bollettini medici che hanno ormai odore di guerra, da Conte impegnato nei DPCM riduce sempre di più la propria libertà individuale. Si odiano quei marmocchi urlanti, richiedenti, con gli occhi languidi e talvolta il naso gocciolante. Vorrebbero di più da noi, vorrebbero rassicurazioni, parole di conforto, mille spiegazioni della situazione che stanno vivendo, che sentono e provano ma che non riescono a comprendere fino in fondo. E lì, all’ennesimo racconto con le stesse parole, si perde la pazienza perché continuano a fare le stesse domande, ora dopo ora, giorno dopo giorno.
Si odia l’adolescente perché si sente privato del proprio gruppo di amici, perché il fidanzatino è lontano , troppo lontano e se la distanza aumenta, il ricordo di loro insieme svanirà. Si odia quel senso di irresponsabilità che li pervade, che gli farebbe mettere a soqquadro il mondo se non ci fosse chi mette ordine, chi fissa la regola e impartisce la responsabilità. E sono i genitori a impartire la regola e subire quegli occhi rabbiosi rivolti verso di loro. Un giorno lo capirai, ma non è questo il giorno.
ESSERE GENITORI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Essere genitori, un mestiere ingrato. E si diventa genitori dei propri figli, solo dopo aver imparato ad essere genitori di se stessi perché tutto quello che agiamo sul mondo è un riflesso di come agiamo nei confronti di noi stessi. Siamo madre di noi stessi quando ci nutriamo, ci prendiamo cura della nostra salute, quando ci rivolgiamo una carezza. Siamo padre di noi stessi quando ci impartiamo una regola da seguire, quando siamo la nostra guida, quando castriamo pensieri ridondanti, quando diciamo NO a comportamenti irresponsabili.
Diventiamo genitori quando comprendiamo che la realtà è complessa, multi sfaccettata, un prisma, in cui regna un principio di convivenza piuttosto che di esclusione e questa presa di consapevolezza richiede uno sforzo, comporta fatica anche nell’accogliere ciò che non possiamo dirci.
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